Frattura del piatto tibiale
Ecco una guida per il fisioterapista su valutazione e gestione della frattura del piatto tibiale.

Le fratture del piatto tibiale sono fratture periarticolari del ginocchio che coinvolgono la porzione prossimale della tibia. Comprendono approssimativamente l’8% di tutte le fratture negli over-551.
L’evento traumatico causale di una frattura del piatto tibiale può interessare anche le strutture circostanti. Il complesso neurovascolare posteriore è più a rischio in caso di infortuni con traumi ad alta energia, fratture-dislocazioni e fratture comminute in cui i frammenti ossei possono portare a compromissioni neurologiche ed ischemie.
L’apparato capsulo-legamentoso e i tessuti molli sono interessati soprattutto nella natura dei menischi e dei legamenti crociati, in particolare nel caso di depressioni del piatto tibiale maggiori ai 10 mm. Nel 10-40% dei casi può verificarsi una sindrome compartimentale, particolarmente associata a traumi ad alto impatto, con fratture comminute o associate a dislocazione, sesso maschile e soggetti giovani1.
Questo tipo di frattura ha un impatto significativo sulla vita delle singole persone e sul sistema sanitario. Viene riportato infatti che questi pazienti non riescono a tornare alla vita lavorativa per i 3-4 mesi successivi alla fissazione chirurgica. Inoltre, complicazioni come infezioni, emorragie e difetti nei mezzi di sintesi possono aumentare l’impatto degli outcome insoddisfacenti2.
Nel lungo termine, lo sviluppo di artrosi, rigidità articolare, atrofia muscolare e riduzione del tono osseo possono influire significativamente sulla vita dei pazienti portando a problemi funzionali e ad un aumentato impatto socioeconomico. L’intervento riabilitativo è una parte molto importante del recupero post-infortunio, nell’obiettivo di tornare al livello di attività pre-trauma2.
Frattura del piatto tibiale: tipologia di pazienti
Esistono due principali gruppi di persone che possono andare incontro a una frattura del piatto tibiale. Il primo gruppo comprende soggetti giovani, prevalentemente di sesso maschile, che subiscono infortuni a seguito di un trauma ad alto impatto (es. incidenti stradali); il secondo gruppo si costituisce di soggetti più anziani di sesso femminile, che subiscono questo infortunio a seguito di traumi a basso impatto (semplici cadute accidentali)2.
I traumi ad alto impatto che portano ad aumentate forze assiali e torsionali sulla porzione prossimale della tibia rappresentano il maggior fattore causale per il primo gruppo di pazienti. La fragilità dell’osso a causa dell’osteoporosi, nonostante il basso impatto e le forze relativamente basse associate al trauma, rappresentano il principale fattore causale per il secondo gruppo2.
Patofisiologia
Come già detto, la frattura del piatto tibiale è solitamente associata ad un trauma. Traumi a bassa energia sono associati a fratture nella zona laterale del piatto tibiale, interessando la componente ossea a minor densità. Traumi ad alta energia spesso sono associati ad un trauma in valgo e risultare anch’essi in fratture isolate del piatto laterale.
Queste portano spesso a una compromissione dei menischi e delle strutture nel corno postero-laterale, risultando in una significativa instabilità meccanica che è spesso difficile da valutare in acuto a causa del dolore e dell’emartro conseguente al trauma1.
Esame obiettivo e valutazione
La presentazione delle fratture del piatto tibiale può ampiamente variare a causa del meccanismo di lesione e delle caratteristiche del paziente. L’esame deve essere scrupoloso in fase acuta, valutando la presenza di lesioni potenzialmente fatali e compromissioni neuro vascolari.
Lesioni dei tessuti molli saranno valutate nelle 24 ore successive al trauma. Nella gestione iniziale il paziente verrà immobilizzato per una valutazione successiva più attenta; in alcuni casi come le fratture esposte può richiedersi l’utilizzo di un fissatore esterno. Lo stato del complesso neurovascolare deve essere regolarmente monitorato tramite esame dei vasi periferici ed esame neurologico per ricercare lesioni nervose periferiche1.
Per la classificazione delle fratture del piatto tibiale viene utilizzata la classificazione di Schatzker3, che suddivide questo tipo di frattura in 6 stadi in base alla severità, alla localizzazione e alla comminuzione. Nella maggior parte dei casi, le fratture del piatto tibiale sono isolate alla porzione laterale, solitamente secondaria a una forza in valgo.
Fratture mediali sono meno frequenti, forse a causa della maggiore densità ossea del comparto e della sua posizione anatomicamente inferiore rispetto al laterale. Forze assiali in compressione producono fratture bicompartimentali, e la combinazione di tutte queste forze esita in una maggior comminuzione e compromissione dei tessuti molli.
Recentemente questa classificazione è stata rivisitata, aggiungendo una specifica riguardo i piani dello spazio in cui è presente la frattura: se anteriore o posteriore, e se laterale o mediale in caso di frattura pluriframmentaria4.
La classificazione delle fratture del piatto tibiale è utile per la pianificazione chirurgica: per programmare il posizionamento dei mezzi di sintesi, per riconoscere la scomposizione della frattura e per considerare l’opzione di una fissazione esterna. Circa il 10% delle fratture del piatto tibiale non riesce a rientrare nella classificazione di Schatzker, in particolare traumi ad alto impatto con rime di frattura nel piano coronale e compressione o avulsione del piatto tibiale. In questi casi potrebbe essere più utile eseguire una TAC per individuare meglio i piani in cui si sviluppa la frattura ed evidenziare le aree di instabilità1.
Imaging
Il principale esame che viene richiesto in caso di sospetta frattura del piatto tibiale è una radiografia in scarico del ginocchio, sia in sezione antero-posteriore che laterale. In combinazione con la diagnosi iniziale e la classificazione della frattura, può dare un’indicazione riguardo le forze coinvolte nel trauma.
Nei casi di interessamento dei tessuti molli, in pazienti con osteoporosi o nelle fratture sul piano coronale, le semplici radiografie possono fuorviare e per questo viene raccomandata la TAC prima di pianificare l’intervento chirurgico per determinare meglio il principale piano di frattura, i segmenti interessati e il punto di uscita distale della frattura.
In aggiunta, una risonanza magnetica può essere eseguita per determinare meglio la necessità di riparazione meniscale o legamentosa, che viene eventualmente programmata nelle settimane o giorni seguenti alla iniziale formazione di callo osseo1.
Trattamento
Conservativo
Il trattamento conservativo può essere appropriato per le fratture composte di tipo I, pazienti non deambulanti, pazienti con basse richieste funzionali, o pazienti con severa artrosi e per i quali una successiva protesizzazione può essere preferita all’immediata riduzione e fissazione interna. Questa opzione conservativa richiede un tutore con ROM adattabile in flessione, fisioterapia, carico ridotto e progressivo aumento del ROM1.
Non conservativo
Il trattamento chirurgico nei casi di frattura del piatto tibiale è necessario per ripristinare la congruenza articolare, l’allineamento meccanico e la stabilità legamentosa, e per permettere la mobilizzazione il prima possibile1.
Le principali indicazioni a favore della fissazione chirurgica delle fratture del piatto tibiale sono:
- fratture del piatto laterale con instabilità in valgo o in varo o separazione tra le superfici articolari superiore ai 5 mm;
- fratture scomposte del piatto mediale;
- fratture bicondilari;
- compromissione neurovascolare;
- fratture esposte.
Un iniziale distanziatore intra-articolare può essere posizionato per dare stabilità, alleviare dal dolore e ridurre la frattura prima che venga eseguita una TAC. La fissazione chirurgica definitiva viene ritardata finché il comparto dei tessuti molli è sufficientemente sano da tollerare l’intervento invasivo1.
La maggior parte dei pazienti con frattura del piatto tibiale presenta una lesione meniscale o legamentosa identificabile tramite risonanza magnetica, molte di queste lesioni non portano a una limitazione funzionale sul lungo termine. Un ulteriore intervento chirurgico viene quindi riservato a chi presenta instabilità dopo la fissazione chirurgica.
Il protocollo postoperatorio da seguire varia in base all’indicazione del chirurgo ortopedico, alcuni possono comprendere da subito il carico completo o parziale ma in casi di traumi ad alto impatto alcuni chirurghi possono consigliare lo scarico per sei settimane. La mobilizzazione passiva iniziale è essenziale per ridurre il rischio di rigidità1.
Trattamento fisioterapico
I protocolli riabilitativi possono variare in base alla scelta del percorso, se conservativo o chirurgico, ed a seconda della tecnica chirurgica scelta.
La mobilizzazione precoce è importante che inizi dal secondo giorno post-operatorio o dalla guarigione della ferita chirurgica e può essere passiva, assistita o attiva. Sembrano non esserci differenze sulla prognosi a lungo termine riguardo l’inizio della mobilizzazione subito dopo l’intervento o ritardandola, ma il ROM entro cui mobilizzare può variare a seconda della tecnica chirurgica utilizzata2.
L’immobilizzazione post-intervento viene considerata solo in casi di fissazione interna e richiede l’applicazione di un tutore regolabile in flessione, il cui utilizzo può variare dai 10 giorni alle sei settimane, riguardo il cui utilizzo non sembra esserci un consenso unanime.
La concessione del carico dopo fissazione interna è un argomento molto discusso e controverso in letteratura. I protocolli possono variare dall’immediato carico completo post-intervento, al carico parziale per 6-12 settimane oppure scarico dalle 4 alle 12 settimane; queste ultime scelte evolvono progressivamente verso il carico completo dopo i periodi già citati.
Alcuni autori suggeriscono di utilizzare l’evoluzione del quadro radiografico come riferimento per la progressione del carico, e in genere il carico parziale per 4-6 settimane è la scelta più frequente. In questi pazienti, sembra che la regolazione del carico e l’evoluzione verso il carico completo avvenga autonomamente e senza influire negativamente sulla prognosi. Infatti, sembra che non risultino complicazioni significative e che possano raggiungere il carico completo anche più rapidamente.
Al contrario, se il carico completo è ritardato oltre le 12 settimane la capacità funzionale come prognosi risultava significativamente ridotta, quindi la scelta migliore sembra essere concedere un carico parziale per sei settimane, e progredire dalla sesta settimana fino a raggiungere il carico completo alla dodicesima. In ogni caso, la concessione di un carico completo non comporta rischi per i mezzi di sintesi né per la riparazione tissutale, e non complica la prognosi ad un anno postoperatorio2.
Dato l’impatto significativo sulla vita quotidiana e il tasso di ritorno al livello di attività pre-infortunio relativamente basso, sembra essere importante un percorso riabilitativo più a lungo termine per migliorare soddisfazione e livello di attività del paziente. In particolare, sembra essere primario il focus sul rinforzo del quadricipite e su esercizi propriocettivi per evitare asimmetrie e deficit sul lungo termine2.
Prognosi
La prognosi sul medio termine dopo fissazione chirurgica è eccellente quando l’anatomia e la stabilità vengono ripristinate. Più della metà dei pazienti che praticava attività sportiva pre-infortunio riesce a tornare, sebbene quest’incidenza sia ridotta in soggetti maschili che hanno subito un trauma ad alta energia o fratture esposte.
A cinque anni post-trauma, all’incirca 1/3 dei pazienti ha sviluppato artrosi post-traumatica, per la quale i principali fattori di rischio sono fratture comminute e bicondilari, rimozione del menisco se interessato, instabilità residua, mal allineamento superiore ai 5° rispetto al normale e riduzione inadeguata.
Circa il 6% dei pazienti che si sottopongono ad intervento chirurgico sviluppa un’infezione della ferita chirurgica, più comunemente in soggetti fumatori, obesi, con fratture esposte e per i quali veniva richiesto un intervento di fasciotomia per trattare una sindrome compartimentale associata. Altre complicazioni dopo la frattura del piatto tibiale includono rigidità dei tessuti molli o articolare secondaria da artrofibrosi, artrite settica, ed interessamento neurovascolare come risultato dell’intervento chirurgico1.
Conclusione
Le cause principali delle fratture del piatto tibiale sono traumi a basso o alto impatto, queste ultime sono associate con maggior compromissione dei tessuti molli, complicazioni e prognosi a lungo termine.
La valutazione deve essere attenta per indagare il grado di compromissione ossea e delle strutture circostanti, includendo radiografie e TAC ma anche risonanze magnetiche come risorse di imaging.
La chirurgia risulta in genere preferibile per ripristinare congruenza e stabilità e garantire una migliore prognosi; in alcuni casi può essere necessario anche più di un intervento per stabilizzare e successivamente ripristinare l’allineamento così come riparare lesioni capsulo-legamentose associate.
La prognosi è solitamente molto buona nonostante fratture ad un più alto impatto sono associate con maggiori complicazioni.
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- Rudran B, Little C, Wilk A, Logishetty K. Tibial plateau fractures: anatomy, diagnosis and management. British Journal of Hospital Medicine. 2020:1-9.
- Iliopoulos E, Galanis N. Physiotherapy after tibial plateau fracture fixation: A systematic review of the literature. SAGE Open Medicine. 2020;8:1-6.
- Schatzker J. Compression in the surgical treatment of fractures of the tibia. Clin Orthop Relat Res. 1974(105):220-39.
- Kfuri M, Schatzker J. Revisiting the Schatzker classification of tibial plateau fractures. Injury. 2018;49(12):2252-63.